Fotogramma da The Simpsons - di Matt Groening

Di che cosa parliamo quando parliamo di smart working

Perché lo smart working conviene alle imprese? Se vi state ponendo questa domanda, in cerca di una risposta per una volta non basata su numeri ammiccanti o buone pratiche tirate a lustro, provate a partire dalle parole: quale promessa di cambiamento organizzativo è racchiusa nell’espressione “smart working”?

Utilizzare la lingua inglese aggiunge fascino e freschezza a qualsiasi concetto. Ciò sembra accadere con particolare evidenza nel caso del concetto di “smart”. Dagli anni ’80 a oggi, abbiamo incontrato questo aggettivo applicato senza sosta e ritegno ai temi più diversi: obiettivi aziendali, automobili, telefoni, città, reti di distribuzione energetica e altre categorie ancora. Definirlo abusato è dunque dir poco; ciononostante, forse mai come nell’espressione “smart working” l’aggettivo è stato utilizzato con maggior compiutezza.

Qualsiasi “smart” implica un “dumb”. Coerentemente, voler passare dalla stupidità all’intelligenza evoca – senza bisogno di scomodare l’Illuminismo – un moto di progresso, o quanto meno di consapevolezza. Parlare di smart work comporta dunque la volontà di prendere le distanze da un mondo del lavoro largamente percepito come poco intelligente. Come messo in luce dagli studiosi di management europei Mats Alvesson e André Spicer nel testo Il paradosso della stupidità, il cancro delle aziende contemporanee è l’attitudine alla “stupidità funzionale”, vale a dire il tentativo – il più delle volte riuscito ed elevato a sistema – di impedire alle persone di pensare con serietà al proprio lavoro.

Concentrando l’attenzione sugli aspetti formali e procedurali del lavoro, le imprese spingono le proprie persone a comportarsi in maniera stupida, facendo loro smarrire la visione di insieme del proprio fare, oltre che il desiderio di porre domande e mettere in questione lo status quo. Il morbo della stupidità funzionale, congenitamente presente nel DNA delle aziende contemporanee come originario lascito tayloristico, si è diffuso in maniera sempre più virale negli ultimi decenni. Questa epidemia è stata causata da agenti negativi cui è facile dare un nome: strategie di breve periodo e rapida remunerazione; elefantiasi manageriale; ipertrofia procedurale; digitalizzazione analfabeta; iper-specializzazione e parcellizzazione; dequalificazione accompagnata da etichettatura pretestuosa delle professioni (qualsiasi segretario diventa molto più “cool” quando viene definito “executive assistant”).

Conseguenza e sintomo di questo malanno è una de-responsabilizzazione diffusa a tutti i livelli organizzativi; piaga che conduce a una minore produttività e a un vertiginoso calo di motivazione e senso di appartenenza. Le imprese rendono stupide le persone – spesso anche oltre l’ambito lavorativo – azzerando la loro capacità di iniziativa e il loro pensiero critico, affossandole nel seducente comfort delle routine e dei “si è sempre fatto così”. Come uscire da questa impasse? Individuando – dicono gli esperti – leve di cambiamento culturale capaci di invertire la rotta e introdurre nelle organizzazioni dosi omeopatiche di responsabilità.

Ecco come interpretare lo “smart” dello smart working: tanto le pratiche di lavoro a distanza quanto l’utilizzo dinamico degli spazi di ufficio si basano su logiche di indipendenza e interdipendenza che è possibile sviluppare solo con un salto di maturità professionale incentrato sulla responsabilizzazione. Ed ecco perché si può rispondere alla domanda iniziale (“perché lo smart working conviene alle imprese?”) non propinando un piatto già cucinato, ma rilanciando la fertile scommessa di un ulteriore quesito: perché lasciarsi sfuggire l’opportunità di scoprire se è davvero possibile lavorare in maniera più intelligente?

Illustrazione: fotogramma da The Simpsons – di Matt Groening.