Fotogramma da The intern - di Nancy Meyers

AAA cercasi apprendisti smart

Di che cosa c’è bisogno per lavorare fuori ufficio, per esempio a casa, in un bar o al parco? Tecnicamente di computer, telefono portatile e connessione a internet: strumenti di cui si potrebbe perfino fare a meno purché dotati di un’attitudine al lavoro matura e indipendente. E qui iniziano i problemi: se il passaggio a pc e telefoni portatili rappresenta – budget permettendo – una questione di hardware facile da affrontare, è l’aggiornamento del “software” nella testa delle persone a essere di davvero difficile gestione. Paradossalmente, ma neanche troppo, un’azienda orientata al lavoro smart potrebbe rapidamente dotarsi di una nuova fornitura tecnologica, per poi scoprire come quest’ultima sia destinata a invecchiare prima che le persone diventino smart.

Lo scarto mentale che permette a chiunque di lavorare ovunque non risiede in una particolare competenza tecnica, ma nella capacità di superare la radicata mentalità che porta a identificare il proprio lavoro con il “posto di lavoro”, espressione non a caso paradigmatica rispetto agli ambivalenti concetti di sicurezza, continuità e routine lavorativa. Per dirla con uno slogan anglofono, il punto dovrebbe essere semplice: “work is not a place – it’s what you do”. Sacrosante parole; ciò che rende arduo farle proprie è un “nemico” dai due volti, il primo dei quali è personale, il secondo organizzativo.

Partendo dall’individuo, il punto fondamentale sta nelle abitudini. Secondo lo studioso americano Norbert Wiener, considerato il “padre” della cibernetica, gli esseri umani sono organismi “neotenici”, cioè tendenti all’eterna giovinezza mentale. Questa attitudine da eterni Peter Pan fa sì che donne e uomini siano destinati a un costante sviluppo di conoscenze. Qualora si smettesse di apprendere, si smetterebbe anche di assecondare la natura umana, finendo per somigliare – nota Wiener – a insetti come le formiche, dalla vita sociale del tutto rispettabile ma irregimentata da un sapere innato che le porta fin dalla nascita a conoscere quanto è necessario alla loro vita. Un’esistenza tanto organizzata quanto predeterminata e noiosa, insomma.

Se le persone non somigliano alle formiche, che cosa può portarle a sentirsi “arrivate” e a voler smettere di apprendere? La comodità delle abitudini, solido ma ambiguo alleato della nostra vita. Ma come funzionano le abitudini? Una volta capito come comportarsi in una data situazione, risulta molto semplice ed economico, in termini di tempo e risorse impiegate, decidere che “si fa così” e attenersi una volta per tutte a quanto rivelatosi efficace. Il problema dei “si fa così”, soprattutto quando estesi ad ampi gruppi di persone e in particolare a contesti aziendali, per esempio sotto forma di procedure, è che col tempo essi tendono a perdere quasi ogni relazione con il “perché” che li sorregge e, nei casi più sfortunati, con l’efficacia che li ha generati. Il “si fa così“ è amico delle “zone di comfort” e in generale della propensione a non voler imparare cose nuove. Ecco perché il cambiamento del lavoro agile può incontrare resistenze: generazioni di lavoratori cresciute all’insegna della totalizzante sovrapposizione fra lavoro e luogo di lavoro sono paralizzate da miriadi di abitudini che rendono accidentato anche per i più volonterosi qualsiasi percorso verso il cambiamento.

Qui si passa al fronte organizzativo, che va inteso non tanto in senso aziendale quanto a livello sociale. È la società, con le sue istituzioni, a non credere nell’uomo come Peter Pan del cambiamento e dell’apprendimento. Fra i vari enti legati alla diffusione dei saperi, è paradossalmente la scuola a crederci meno. Questo perché il sistema scolastico formalizza e chiude entro precisi confini temporali quello che dovrebbe essere un percorso di apprendimento senza fine. Dopo un determinato percorso di studi, ci viene concesso di definirci “maturi”, “diplomati”, “laureati” e, nel peggiore degli incubi linguistici, “masterizzati”. Con in mano un attestato che ci riconosce come qualcuno “che sa”, perché mai dovremmo rimetterci in discussione per apprendere cose nuove?

Appesantito dalla zavorra delle abitudini e dalla presuntuosa attitudine all’anti-socratico “io so di sapere”, ogni processo di cambiamento in ottica smart incontra ostacoli tali da far pensare che chi lavora in azienda preferisca a volte vedersi come formica invece che come uomo o donna. C’è un solo modo per “portare a bordo” il cambiamento smart: partire dal ridare valore all’apprendimento come chiave dello sviluppo individuale e organizzativo. La parola spetta alle direzioni HR e, ovviamente, a tutti i lavoratori.

Illustrazione: fotogramma da The Intern – di Nancy Meyers