Fotogramma da Tempi Moderni - di Charles Chaplin.

Con la tecnologia smart, basta scuse!

La tecnologia, al pari degli spazi architettonici, riveste un ruolo fondamentale nelle pratiche di smart working. Benché non in grado di ispirare e attivare i processi mentali e comportamentali alla base delle nuove modalità di lavoro, la tecnologia li agevola rivestendo – come è giusto che sia per ogni strumento – un ruolo di supporto. Del resto, nessuno si è mai sognato che un buon pennello potesse dare nuove idee a un pittore. Quando funziona bene, la tecnologia si rende invisibile, aiutando a risolvere problemi e ad anticipare bisogni. È possibile che la tecnologia non funzioni bene al primo colpo, necessitando di un ragionevole “rodaggio” che necessita di un contributo attivo da parte dei suoi utilizzatori. Non è detto che questo contributo arrivi, spesso anzi sostituito da una malcelata diffidenza.

L’equivoco di cui sono vittima i detrattori della tecnologia è quello di scambiare un mezzo con il fine, di confondere un ostacolo di percorso con un vincolo volontariamente imposto allo scopo di far lavorare peggio. Come recita la saggezza popolare, quando il dito indica la luna, qualcuno guarda il dito. E in più, in questo caso, quel qualcuno aggiunge la malizia che fa della tecnologia – e spesso dei dipartimenti IT – il capro espiatorio su cui riversare istanze critiche che sono molto più “politiche” che tecniche. Per chi non crede nel cambiamento, non esiste alibi migliore di quello tecnologico per non impegnarsi a dare supporto.

Fondamentale per ogni tecnologia è l’alfabetizzazione di base rispetto ai suoi strumenti. Quanto ai tempi di adozione, le aziende ci mettono del loro e, a volte per motivazioni legate alla sicurezza, altre volte per via di semplice affanno procedurale, spesso arrivano tardi nell’adozione di uno strumento. Un esempio su tutti: se i giovani non usano più le e-mail, le aziende non utilizzano praticamente altro, per di più con dinamiche di impiego dello strumento a dir poco distorte (gli abusi dei cc e ccn). Passando dall’azienda ai singoli lavoratori, non si capisce perché persone abbastanza “smart” da usare tutti i giorni social network e app di comunicazione poi non sappiano utilizzare un semplice software di messaggistica aziendale. E si rifiutino di installarlo sul computer, restando in attesa degli aiuti dei dipartimenti IT. Troppa fatica, certamente; troppo tempo rubato ad altre attività di ufficio. Siamo ovviamente sullo scivoloso terreno degli alibi.

Di fronte a un nuovo strumento, si pretende che questo funzioni esattamente come quello vecchio. Il punto è che nuovi strumenti sono pensati per assecondare nuove esigenze e quindi anche per accompagnare l’adozione di nuove abitudini. Come potrebbe una chat di gruppo funzionare come una e-mail? La responsabilizzazione capace di sorreggere il cambiamento verso lo smart work si basa su una intraprendenza che si potrebbe anche dire “funzionale”, vale a dire finalizzata a trovare l’uso di nuovi spazi e strumenti più rispondente alle esigenze di collaborazione. “How buildings learn” è il titolo di un libro dello studioso americano Stewart Brand dedicato alla relazione fra persone, contesti abitativi e collaborativi e relativi strumenti. Il titolo dice tutto: i luoghi, ma anche gli strumenti, apprendono. Ma da chi possono imparare, se non da persone desiderose di impossessarsene e renderli utili? Uno spazio abbandonato, o uno strumento tecnologico non utilizzato, non saranno mai oggetto di apprendimento e trasformazione. Non saranno mai smart se non li usiamo in modo smart. È opportuno ricordare sempre che la tecnologia non contiene la risposta a tutte le nostre esigenze; contiene piuttosto una serie di domande che risulta intelligente porsi per guardare in maniera più consapevole ai nostri comportamenti e provare a lavorare meglio.

Illustrazione: fotogramma da Tempi Moderni – di Charles Chaplin.