Fotogramma da PlayTime - di Jacques Tati.

E se gli uffici fossero più smart di noi?

Gli ambienti che abitiamo influenzano i nostri comportamenti, anche se ne siamo poco consapevoli. Caso banale: tutti abbiamo un’idea di quanta differenza possa fare vivere in una casa di trenta metri quadrati invece che in una di centoventi. Eppure, ce ne rendiamo conto solo quando traslochiamo dall’appartamento più piccolo a quello più grande (o viceversa), scoprendoci propensi a comportamenti e abitudini che forse prima non avremmo immaginato.

Per ricorrere a un esempio più raffinato, si pensi all’esperimento “della prigione” condotto nel 1971 nel dipartimento di psicologia dell’università di Stanford in California. Il professor Philip Zimbardo trasformò gli spazi universitari in un carcere, assegnando ai suoi studenti i ruoli di guardie e prigionieri. I nuovi ambienti si imposero in maniera imprevedibilmente forte: apparentemente dimentichi della loro identità di pacifici hippie americani, gli studenti si identificarono subito con i ruoli loro assegnati, dando vita a comportamenti psicologicamente disturbati. I carcerati iniziarono a cadere in depressione, tentando di fuggire o di dar fuoco alla prigione; le guardie, dal canto loro, iniziarono a sottoporre i prigionieri a continue violenze verbali e fisiche. Ovviamente, l’esperimento venne sospeso dopo appena cinque giorni, tempo più che sufficiente per dimostrare nella pratica la tesi di Zimbardo: gli ambienti possiedono un’enorme forza nel determinare le relazioni umane, anche al di là della nostra volontà e coscienza.

Passiamo dalle prigioni agli uffici, spesso visti con facile ironia come luoghi di reclusione, ma di rado considerati in maniera seria rispetto al loro potenziale di influenzare comportamenti e relazioni. Una delle persone ad averli presi più sul serio è il designer americano Robert Propst, che negli anni Cinquanta definì il concetto di “action office”, vale a dire un ecosistema lavorativo pensato per facilitare lo sviluppo di pensieri e azioni. Il lavoratore, concepito da Propst come soggetto in costante movimento e impegnato in molteplici attività, aveva bisogno di spazi e strumenti flessibili. Con attenzione all’ergonomia, Propst progettò un ambiente di lavoro semplice e aperto, capace di assecondare comportamenti e relazioni. Qualcosa di mai visto prima e che il mondo lavorativo dell’epoca preferì non portare all’interno dei propri uffici, costringendo il lavoro di Propst a farsi molto meno rivoluzionario. Il primo prototipo di action office venne rifiutato; i successivi modificati fino a risultare, pur conservando alcuni spunti del progetto originario, accettabili per gli uffici – e i manager – dell’epoca.

L’influsso della cultura aziendale dominante ha continuato a farsi sentire pesantemente sullo sviluppo degli spazi di ufficio. Nel corso del tempo, l’action office è suo malgrado “evoluto” nei cubicoli, a poco a poco sostituiti dagli attuali “open space”. Tutto ciò senza che la filosofia di fondo cambiasse mai veramente, facendo anzi alcuni passi indietro rispetto all’approccio di Propst. Gli uffici, lungi dall’essere pensati per conferire libertà alle persone, le ingabbiano in condotte sempre più chiuse su loro stesse e a lungo andare vicine al patologico e difficilmente accettabili in qualsiasi altro contesto sociale.

Immedesimiamoci, con gusto per l’iperbole, nell’aziendale medio e cominciamo dal micro: la scrivania, ovvero il mio spazio personale all’interno di un ambiente che non mi appartiene.  L’ufficio non è mio; la scrivania sì. Per questo, la personalizzo, la decoro (con gadget, poster, santini famigliari e tanta carta inutile) e la tratto come un possesso personale, curandomi del fatto che nessun altro possa utilizzarne il telefono, la tastiera del computer e perfino il cestino associato alla mia postazione. Come un comandante alla plancia di controllo, guardo il mondo a partire dalla mia scrivania, sentendomi una monade di fronte a un universo di cose e persone che, forse, è solo una emanazione del mio punto di vista. Proprio perché l’ufficio non è mio, considero tutti gli altri ambienti di lavoro come una terra di nessuno. Tratto sale riunioni, corridoi, bagni e altri spazi (incluso ciò che contengono, per esempio armadietti e stampanti) in modo casuale e selvaggio, lasciandoli sporchi, disordinati e spesso utilizzabili con difficoltà e disagio da parte dei colleghi.

Se la descrizione suona in qualche misura vicina alla realtà, significa che le aziende contemporanee hanno un problema da risolvere. Questo problema – sia detto per riabilitare almeno in parte l’aziendale medio, ma soprattutto per ricordare il potere di influenza dei luoghi – risiede principalmente nella progettazione degli ambienti di lavoro. Per cambiare le cose e costruire un’adeguata coabitazione lavorativa, c’è bisogno di spazi che abilitino una riconversione del rapporto fra contesto e relazioni, conferendo alle persone più opportunità di scelta. C’è bisogno di spazi intelligenti, cioè aperti, dinamici e conviviali. La buona notizia è che questi spazi sono già qui, e si chiamano “smart space”. Reincarnazione contemporanea del sogno di Robert Propst, i nuovi spazi e arredi d’ufficio connessi alle pratiche di smart working rimettono persone e relazioni al centro, favorendo lo svolgimento delle diverse attività e l’evoluzione dei comportamenti lavorativi.

Liberando la persona dal falso possesso della scrivania fissa, gli smart space forzano l’uscita da zone di comfort statiche e polverose, a tutto favore di un’attitudine al movimento e all’assunzione di diversi punti di vista. Sembrerà banale, ma il solo sedersi a una scrivania diversa dal solito può cambiare completamente la percezione del proprio mondo lavorativo. Gli smart space assecondano opportunità di confronto e collaborazione differenziate, grazie a spazi modulari capaci di superare l’idea che la “riunione” sia la principale opportunità di confronto a livello di gruppo. Risultano inoltre più sicuri, silenziosi e comodi, nonché privi di carta inutile. Infine, rieducano lo spirito “civico” di ogni persona, diffondendo un senso di appartenenza coerente con una rinnovata “cittadinanza organizzativa” in grado di costruire un ecosistema di spazi e strumenti sia interni che esterni all’azienda accomunati dalla capacità di rendere la collaborazione “smart”.

Illustrazione: fotogramma da PlayTime – di Jacques Tati.