Fotogramma da A Tempo Pieno - di Laurent Cantet.

L’equilibrio del lavoro smart

Uno dei principali fattori di “vendita interna” dei processi di smart working è la promessa di un migliore work-life balance, cioè una più sana ed equilibrata relazione fra vita privata e lavorativa. Le imprese si mostrano particolarmente attente a questo aspetto, volgendolo verso l’esterno come veicolo reputazionale e strumento di attrazione per potenziali nuovi assunti: dovendo scegliere fra due aziende grosso modo equivalenti, chi non preferirebbe entrare in quella che presta maggiore attenzione al benessere delle persone che vi lavorano?

Marketing a parte, il work-life balance va indagato con attenzione: l’esistenza stessa del concetto è infatti spia di un malessere diventato distintivo per l’uomo moderno (e pressoché assente in epoche precedenti), cioè la difficoltà di costruire un’esperienza di vita a tutto tondo. Si pensi a come gestiamo il nostro tempo e alla canonica suddivisione della giornata in tre parti di otto ore ciascuna, dedicate a lavoro, tempo libero e riposo. Lungi dall’essere una pratica “naturale”, questa scansione fu messa a punto dal socialista utopista inglese Robert Owen all’inizio dell’Ottocento, in reazione agli oppressivi orari di fabbrica imposti dalla rivoluzione industriale, i cui turni di lavoro potevano raggiungere anche le diciotto ore giornaliere. Introducendo una separazione fra tempo operativo e tempo libero, l’organizzazione moderna del lavoro ha generato una frammentazione dell’esperienza umana destinata a radicarsi negli anni a venire.

Tornando all’oggi, i nuovi strumenti di flessibilità giornaliera e oraria dello smart working, al netto delle opposte preoccupazioni con cui manager e sindacati solitamente li accolgono (i primi temono che si lavori meno, i secondi che si lavori troppo), giovano senz’altro all’equilibrio personale. Risparmiare un viaggio da casa a ufficio o gestire più facilmente alcune attività quotidiane (la spesa, una visita medica, l’uscita dei figli da scuola) migliora infatti la qualità della nostra vita. Ma si può fare di più: per le aziende e i lavoratori che prendono davvero sul serio lo smart working la posta in gioco deve farsi più alta e puntare sul lungo periodo al progressivo superamento del concetto stesso di work-life balance. Per quanto corretto e appetibile, esso si basa su un presupposto di frammentazione dell’esperienza che si è visto essere storicamente determinato e che va rimesso in discussione alla luce dell’oggi e delle nuove opportunità di lavoro smart. L’idea che esistano sfere della vita da mantenere forzatamente separate si mostra in tutta la sua riduttività e inadeguatezza storica; per dare valore al work-life balance bisogna aggiungervi un elemento che spesso le aziende dimenticano: la costruzione di senso.

Secondo il consulente americano Jim Collins, l’attività produttiva umana va letta in relazione a tre leve: ciò che si ama fare, ciò che si sa fare davvero bene e ciò per cui si viene pagati. Rappresentando – nel libro Good to Great (2001) – le tre leve tramite altrettanti cerchi intersecati, Collins descrive come situazione ideale una sovrapposizione il più possibile perfetta fra i tre insiemi. Lo schema aiuta a comprendere che la soddisfazione personale non si limita a un bilanciamento fra lavoro e vita privata, ma punta più in alto: allineare passione, competenza e retribuzione economica. Questo obiettivo può essere raggiunto solo da aziende e lavoratori in grado di operare un ulteriore allineamento, quello riguardo al senso da attribuire lavoro. Nelle occasioni in cui questo connubio non riesce, per esempio quando un lavoro percepito come scarsamente appagante porta la passione a rifugiarsi nei fine settimana (sotto forma di hobby e passatempi), ci si ritrova nella sterile opposizione vita privata e lavorativa e dunque in una interpretazione del work-life balance che potremmo definire necessaria ma non sufficiente per la costruzione di un’esperienza di vita e lavoro autentica e soddisfacente.

Stare meglio e riconquistare i propri tempi e spazi non deve dunque essere inteso come fine ma come mezzo per giungere a un mutuo riconoscimento, lato azienda e lato persona, della centralità delle tre sfere di cui si è parlato: passione, competenza e retribuzione. Il vero “balance” cui lo smart working deve puntare è dunque anzitutto fra azienda e persona: se questa promessa si realizzerà, saremo di fronte a un cambiamento rivoluzionario per la storia del lavoro.

Illustrazione: fotogramma da A Tempo Pieno – di Laurent Cantet.