Fotogramma da Fantozzi - di Luciano Salce.

Diventare così smart da poter lavorare ovunque

Molte persone non lavorerebbero mai in un luogo diverso dall’ufficio. O almeno, questo è quanto affermano e probabilmente credono, in mancanza di una esperienza vissuta a riguardo e dunque di un possibile raffronto con ciò cui sono abituate. Sicuramente è capitato loro di lavorare in trasferta e probabilmente anche da casa, ma solo sporadicamente, la sera o nel fine settimana per una urgenza o nel caso di un’assenza per malattia. Questo non è il lavoro da remoto di cui parla lo smart working (che non va nemmeno confuso, importante ricordarlo, con il telelavoro). Il lavoro agile e flessibile fuori dagli spazi di ufficio non è una straordinaria eccezione ma una normale opportunità di maggiore flessibilità lavorativa inserita nei più ampi confini del lavoro professionale, il cui centro formale resta l’ufficio.

Per acquisire maggiore consapevolezza delle differenze tra il “dentro” e il “fuori” dell’odierno mondo lavorativo – e rendersi conto dei rispettivi elementi di positività e possibile criticità – è utile guardare alle “ritualità” che li contraddistinguono. In ufficio i blocchi di tempo sono regolari ed etero-diretti, laddove nel lavoro flessibile non esiste nessuna norma che non sia frutto di una negoziazione individuale rispetto alle esigenze di collaborazione collettiva. Se probabilmente non si può lavorare di notte come i fornai, è d’altro canto possibile strutturare la giornata in blocchi di lavoro di dimensione e contenuto coerenti con le proprie attività, svincolandosi dalle routine formali e informali tipiche dell’ufficio. Nessun pranzo per forza alle tredici, nessuna pausa sigaretta alle undici, nessuna merenda alle sedici. Nessuna, a meno che io non lo voglia! Di solito, la prima sensazione di chi inizia a lavorare da casa è “non stacco mai”. Questa impressione è generata dalla mancanza delle interruzioni canoniche appena elencate. Siccome non ci sono né cartellino da timbrare né sirena di uscita, metaforica o reale, tutto il mio tempo lavorativo deve essere autogestito. Sicuramente Fantozzi non si sarebbe trovato molto bene a lavorare da casa, ma lo smart worker può facilmente imparare a gestire questa nuova opportunità di lavoro, acquisendola come alternativa alla giornata d’ufficio.

Gli esempi cui attingere non mancano. Tanto per cominciare, benché si faccia quasi sempre riferimento al lavoro di ufficio e all’azienda – di solito la grande azienda – il mondo del lavoro è ricco di esempi molto vicini alle logiche del lavoro smart. Anzitutto, alcune professioni – su tutte quella dei venditori, sempre in movimento e a diretto contatto con i clienti – vivono naturalmente una dinamicità lavorativa che porta a spostarsi molto e quindi a considerare “ufficio” poco altro che computer, telefono, carta e penna. Da questi “nomadi” del lavoro, capaci di svolgere efficacemente il loro lavoro indipendentemente dall’identificazione con uno specifico luogo, si possono apprendere molti comportamenti smart. Ci sono poi i liberi professionisti, dotati di un ufficio a casa e propensi alle ormai consolidate dinamiche degli spazi di co-working, all’interno dei quali una dotazione lavorativa adeguata si unisce a interessanti possibilità di networking e socialità. Infine, molte piccole aziende e start-up, fra organizzazione piramidale e fluida, vivono dinamiche sorprendentemente vicine al lavoro smart, tanto per l’uso differenziato e flessibile degli spazi di lavoro, quanto per le opportunità di muoversi in ambienti alternativi a quello d’ufficio.

Oltre agli esempi professionali, c’è un parallelismo che descrive con grande semplicità il passaggio dal lavoro etero-regolamentato d’ufficio a quello auto-regolamentato fuori di esso. Iniziare a lavorare da remoto somiglia molto al passaggio dal liceo all’università. Quali sono le differenze? Al liceo viene detto cosa e come studiare, mentre all’università il “come” spetta agli studenti; al liceo si lavora per compiti, all’università per obiettivi da raggiungere. Si tratta di uno scarto di maturità e autonomia, basato su autonomia di organizzazione e motivazione. Detto in altri termini – e fuori di metafora – il lavoratore flessibile diventa capace di gestire il proprio lavoro a partire da un indirizzo dato, trovando il modo più adeguato per portarlo a termine e strutturando le proprie giornate in maniera conseguente. Questa altro non è che – sorpresa! – una descrizione del lavoro per obiettivi così come già fra gli anni Cinquanta e Sessanta l’aveva immaginata lo studioso austro-americano Peter Drucker. Lavorare per obiettivi altro non significa che diffondere strategia e obiettivi a tutti i livelli dell’organizzazione, per permettere a ogni persona di lavorare su dei “perché” chiaramente e trasparentemente condivisi, facendo propria l’iniziativa di trovare i “come” a essi più rispondenti. Lo smart working sarebbe quindi davvero piaciuto a Peter Drucker e può essere inteso come la più concreta opportunità oggi a disposizione delle aziende per trasformare il passaggio “da compiti a obiettivi” da slogan a realtà.

Illustrazione: fotogramma da Fantozzi – di Luciano Salce.