Ogni cambiamento organizzativo può trarre grande vantaggio da una metafora aggregante che lo sostenga toccando corde sia razionali che emotive. Per parlare di smart working, una delle metafore più efficaci è quella della musica jazz. Questo perché il jazz rappresenta una forma di collaborazione strutturata all’interno di un contesto complesso. Il jazz è la musica del cambiamento, basata su un’attitudine alla flessibilità e responsabilità che dà vita a una collaborazione aperta e dinamica, caratterizzata da indipendenza e interdipendenza funzionale.
Se per anni la metafora dell’orchestra sinfonica è stata al centro del dibattito manageriale è perché le organizzazioni, all’interno di un contesto macro-economico apparentemente incoraggiante, hanno a lungo privilegiato dinamiche di esecuzione e leadership concentrata. In un’orchestra classica, ogni strumentista ha un compito da eseguire alla lettera, indipendentemente da quanto accade intorno a lui. L’ascolto non è una prerogativa fondamentale; l’importante è seguire lo spartito, anche a rischio di lavorare a silos. Unico ad ascoltare tutti – e guidarli con la sua autorità formale – è il direttore, che brandendo la sua bacchetta esercita una leadership finalizzata a gestire soggettivamente le eventuali deviazioni da quanto messo nero su bianco sullo spartito. È questa una metafora ancora valida per descrivere le complesse, rapide e dinamiche organizzazioni del nuovo millennio? La risposta a questa domanda retorica è un altrettanto scontato no.
Il jazz è molto più vicino alle organizzazioni contemporanee, per una serie di motivi. Anzitutto, anche nel jazz c’è uno spartito da suonare, così come in un’azienda ci sono strategie e obiettivi, ma esso è costantemente messo alla prova e interpretato in relazione a quanto accade in tempo reale sul palcoscenico. I musicisti esercitano quella che aziendalmente viene definita pianificazione strategica, cioè la capacità di adattare i propri piani a quanto accade, invece che applicare quanto progettato tempo prima e magari non più valido. Mentre si “sintonizzano” col cambiamento, i musicisti hanno l’opportunità, grazie alla pratica dell’improvvisazione, di innovare il brano. Per questo nel jazz, che pure è una musica di grande tradizione grazie al suo ricchissimo repertorio di “standard”, una canzone non viene mai suonata nello stesso modo, ma sempre in maniera da rispondere al meglio allo specifico contesto in cui gli si dà vita.
Parlando di improvvisazione, è bene ricordare che questa non corrisponde affatto al “fare le cose a caso”. I musicisti jazz sono fra i più competenti in assoluto, dotati di grande tecnica strumentale, conoscenza di un repertorio molto vasto (gli standard prima citati) e di un ampio patrimonio di pratica ed esperienza, unito alla fondamentale capacità di ascolto. Se il contrabbassista Charles Mingus affermava “Non si può improvvisare sul nulla”, il pianista e band-leader Duke Ellington era solito dire “La cosa più importante che guardo in un musicista è se sa come ascoltare”. Come a dire: per poter anche solo pensare di innovare, è opportuno disporre di un ampio bagaglio di conoscenze ed esperienze. E prima di sfruttarle la principale cosa da fare è mettersi in ascolto.
Quanto al tema della leadership, nei gruppi jazz c’è solitamente un leader “formale” (e anche nel jazz esistono orchestre), ma questo ruolo non viene mai interpretato con un atteggiamento accentrante. Il leader non è l’unico ad ascoltare, così come non è l’unico a poter improvvisare e influenzare lo sviluppo del brano. Entrambe le pratiche sono “diritto e dovere” di ogni membro della band, che si pone come attivo contributore all’evoluzione musicale esattamente allo stesso livello del leader. Quest’ultimo ha in più, da buon manager, il compito di orchestrare la collaborazione e il contributo di tutti, assicurando spazio e accoglienza a ogni persona, comprendendo quando assecondare una nuova idea o quando attenersi a una rotta più stabile. Il leader ha la responsabilità della performance ma la distribuisce nel gruppo, rendendo ogni brano jazz un esperimento in tempo reale di democrazia collaborativa e leadership diffusa. Ecco perché, quando si pensa al profilo comportamentale dello smart worker, è difficile trovare un modello metaforico più adatto di quello del jazzista, rappresentante della musica del cambiamento per antonomasia.